Green Technology Aesthetically Pleasing
Una delle sfide fondamentali che nel 21° secolo l’uomo è chiamato a
sostenere è la promozione dello sviluppo sostenibile degli ecosistemi
nel pieno rispetto di tre esigenze:
A) l’alimentazione,
B) l’energia
C) la
salvaguardia dell’ambiente, incluso i cambiamenti climatici e la
degradazione dei vari habitat dovuta all’inquinamento.
Le piante, con le loro caratteristiche peculiari, svolgono un ruolo
fondamentale nella risoluzione di queste tre sfide “sostenibili”.
In Europa e nel mondo la maggior parte dei terreni coltivati sono
inquinati da metalli pesanti e/o composti chimici organici, per lo più
derivanti dalla fertilizzazione fosfatica e dall’uso di fitofarmaci di
sintesi. Stessa sorte spetta alle aree industriali, gli ambienti urbani,
le zone minerarie, le discariche e i corsi d’acqua, anche se l’origine
degli elementi e dei composti contaminanti è diversa. I metodi
convenzionali di bonifica di siti inquinati sono costosi ed alterano le
proprietà fisico-chimiche e biologiche dei substrati sottoposti a
trattamento, provocando un ulteriore impatto negativo sull’ambiente,
infertilità dei suoli e rilascio di nuove molecole inquinanti. Il
progressivo deterioramento della qualità ambientale e l’impatto
dell’inquinamento sulla salute umana hanno promosso lo sviluppo di
ricerche e tecnologie per il risanamento ambientale. Le
fitotecnologie
rappresentano una valida alternativa alla risoluzione del problema;
esse sono tecnologie a basso impatto ambientale che sfruttano i processi
fisiologico-biochimici e molecolari tipici delle piante per eliminare,
trattare, stabilizzare o contenere gli inquinanti di varia natura
presenti, essendo le piante stesse i principali bersagli della
contaminazione da metalli pesanti, pesticidi, farmaci ed altro. La
maggior parte delle sostanze inquinanti presenti nei terreni e che si
riversano nelle acque possono accumularsi negli organismi attraverso la
catena trofica e vengono trasferite da un organismo all’altro
concentrandosi ulteriormente.
Tre le fitotecnologie emergenti, la “
phytoremediation” o
fitodepurazione è un metodo di trattamento
in situ
che usa le piante verdi, e eventualmente i microrganismi associati alla
loro rizosfera, per la degradazione, rimozione e/o riduzione della
concentrazione degli inquinanti nel suolo, acque, sedimento, aria. Le
piante, infatti, grazie alla loro particolare morfologia e metabolismo,
sono capaci di esplorare i vari substrati mediante l’apparato radicale,
di assorbire e/o stabilizzare contaminanti inorganici come i metalli
pesanti, molti dei quali sono anche micronutrienti (Cu, Fe, Zn, Mn, Mo,
Ni, etc.), e di decomporre e trasformare i contaminanti organici, come
gli idrocarburi, i solventi clorurati, i pesticidi, etc.
In base al tipo
di meccanismo metabolico prevalente, si distinguono diverse strategie o
applicazioni della fitodepurazione, sintetizzate in
Figura 1.
Le piante assorbono gli inquinanti presenti nel substrato attraverso le
radici e li trasferiscono e accumulano nella parte aerea o più
facilmente asportabile con la raccolta mediante la
fitoestrazione o fitoaccumulo.
Alcune specie di piante sono capaci di immobilizzare i contaminanti a
livello radicale per adsorbimento sulla superficie delle radici o
accumulo al loro interno e/o per precipitazione nella rizosfera (
fitostabilizzazione). La
rizofiltrazione
è una tecnica di bonifica impiegata soprattutto in ambienti acquatici, o
comunque dove la fase acquosa prevale, e sfrutta la capacità
dell’apparato radicale della pianta di trattenere nei propri tessuti gli
inquinanti o di adsorbirli sulla superficie dell’epidermide, ricoperta
da uno strato mucillaginoso di polisaccaridi (rizoplano). Il risultato è
una immobilizzazione dei contaminanti nelle radici della pianta; quando
le radici diventano sature, vengono asportate dal mezzo. Altre specie
vegetali sono in grado di decomporre e trasformare i contaminanti
(soprattutto organici) in sostanze più semplici, potenzialmente meno
tossiche, attraverso il processo di
fitodegradazione o fitotrasformazione.
In alcuni casi la pianta, attraverso le radici, assorbe dal mezzo
l’inquinante, che trasporta fino alle foglie e lo immette tal quale (o
trasformato) nell’atmosfera mediante il flusso traspiratorio (
fitovolatilizzazione). Un altro metodo di fitodepurazione è il cosiddetto
controllo idraulico,
cioè la regolazione e/o condizionamento dei flussi di acqua
nell’ambiente da parte della pianta attraverso il processo di
evapotraspirazione, che limita la diffusione degli inquinanti nelle
acque sotterranee e superficiali. Questo fenomeno permette di usare le
piante come vere e proprie barriere alla diffusione degli inquinanti
lungo le sponde dei corsi d’acqua (“
riparian corridors”) o lungo il
perimetro di siti inquinati (“
buffer strips”), oltre che su tutta la
superficie dell’area contaminata (“
vegetative cover”).
Quando la tecnica di fitodepurazione si avvale in modo specifico
dell’interazione tra la pianta e i microrganismi presenti naturalmente
nella sua rizosfera oppure appositamente selezionati e introdotti in
essa mediante inoculo, si parla anche di “
rhizoremediation” o rizorimediazione.
In questo caso si crea un rapporto mutualistico tra l’attività radicale
della pianta e i microrganismi della microflora indigena e/o i
microrganismi esogeni (“plant-microbe symbiosis”), che migliora la
biodisponibilità dei composti organici ed inorganici presenti, favorendo
e accelerando l’assorbimento e/o degradazione dei primi e
l’assorbimento dei secondi da parte della pianta. Un’unica specie
vegetale può essere capace di attuare tutte queste strategie o
“fitotrattamenti” contemporaneamente, oppure l’uno o l’altro in modo
prevalente; molto dipende dalla natura dell’inquinante o degli
inquinanti e dalla loro biodisponibilità. La frazione biodisponibile dei
contaminanti è uno dei fattori che condizionano maggiormente
l’efficacia del processo di fitodepurazione, in quanto può accadere che
della totalità delle molecole inquinanti presenti, solo una porzione
minima possa essere asportata o degradata dalla pianta. Ciò dipende
dalle proprietà chimico-fisiche del metallo o del composto organico
responsabile dell’inquinamento, dalle caratteristiche pedoclimatiche e
dai processi biologici che interessano il substrato.
La
fitodepurazione è una tecnologia emergente nell’ambito dei più
moderni sistemi di bonifica e ripristino ambientali. È relativamente più
economica dei sistemi di bonifica convenzionali e a basso impatto
ambientale ossia eco-compatibile o “verde”, e per questo ha conquistato
un largo consenso nell’opinione pubblica (“
green technology
aesthetically pleasing”). Tuttavia, la sua applicabilità è attualmente
limitata a causa soprattutto dei tempi di impiego, relativamente lunghi
perché strettamente legati al ciclo di sviluppo delle piante utilizzate,
ed alla scarsa “standardizzazione” delle metodologie. A quest’ultimo
proposito, per ogni situazione d’inquinamento sarà necessario
individuare di volta in volta la specie più adatta da usare, in
dipendenza delle caratteristiche specifiche dell’ambiente contaminato e
del tipo di inquinanti presenti, allo scopo di realizzare la depurazione
ed il recupero del sito, nonché le condizioni più idonee per
l’impianto. Per questo motivo la programmazione di qualsiasi intervento
di fitodepurazione richiede un’attenta caratterizzazione del luogo
contaminato ed una valutazione del rischio sito-specifica, in modo da
sviluppare il metodo più adeguato all’obiettivo di risanamento
(sequestro, stabilizzazione, contenimento o degradazione del composto
inquinante). Lo sviluppo e l’applicazione su larga scala delle
tecnologie di fitodepurazione devono dunque essere supportati da una
costante attività di ricerca.
Da diversi anni il CNR e in particolare gli istituti IBAF (Istituto
di Biologia Agro-ambientale e Forestale, http://www.ibaf.cnr.it) e IBBA
(Istituto di Biologia e Biotecnologia Agraria, http://www.ibba.cnr.it/)
conducono ricerche di base e applicative sulla fitodepurazione, allo
scopo di identificare i meccanismi morfo-fisiologici, biochimici e
molecolari che regolano la capacità delle piante di tollerare e/o
degradare sostanze potenzialmente tossiche per gli ecosistemi. Ciò
permetterà di selezionare specie vegetali utilizzabili in programmi di
intervento per la bonifica ed il recupero di siti inquinati da
contaminanti di varia natura, con ricadute positive sulla salvaguardia
dell’ambiente, la sicurezza alimentare e la tutela del paesaggio. In
particolare, lo studio della risposta delle piante agrarie e forestali
all’inquinamento ed ai cambiamenti climatici si sviluppa nello studio
del funzionamento dei meccanismi metabolici di base coinvolti e nel
possibile risvolto di tipo applicativo per lo sviluppo di tecnologie di
risanamento ambientale adeguate. Di conseguenza, si realizzano
esperimenti in condizioni di crescita delle piante completamente
controllate (sistemi
in vitro, cella climatica) o
semi-controllate (serra, lisimetro, mesocosmo) e si allestiscono
impianti in piena aria in ambienti confinati e/o di campo
(Fig. 2).
Nell’ultimo decennio, grazie ad un’attiva progettualità e attività di
collaborazione tra i gruppi di ricerca degli istituti e con altri enti
di ricerca è stato scoperto il ruolo di alcuni importanti meccanismi che
le piante hanno sviluppato a livello fisiologico, biochimico e genetico
per contrastare gli effetti negativi delle molecole inquinanti. Per lo
studio dell’inquinamento da metalli pesanti sia essenziali (es: Zn), che
non (es: Cd), sono state utilizzate diverse specie vegetali come
Phragmites australis, Lemna minor e Populus spp. (in forma naturale ed ibrida).
A livello fisiologico le piante più tolleranti all’eccesso di metalli
sviluppano principalmente due strategie. Le piante così dette
“
escludenti” sfuggono o riducono notevolmente l’assorbimento di metalli
attraverso l’uso di barriere chimico-fisiche o biochimiche (ispessimento
e composizione e carica della parete cellulare, selettività dei
trasportatori). Le piante “
accumulatrici” o “includenti” crescono e si
sviluppano pur assorbendo elevate quantità di ioni metallici, che
accumulano in alte concentrazioni nei propri tessuti. Appartengono a
questa categoria le piante così dette “
iperaccumulatrici”, in grado di
accumulare elementi metallici in concentrazioni incredibilmente elevate,
a partire da 1000 mgkg
-1 di sostanza secca, pari allo 0.1 % del peso secco, fino a 10.000 mgkg
-1
di s.s. (1% del peso secco), a seconda dello specifico elemento. Questi
valori sono considerati normalmente tossici per la gran parte delle
specie vegetali; la maggior parte delle piante
iperaccumulatrici
appartiene alla famiglia delle
Brassicaceae e sono
caratterizzate da ciclo annuale, al massimo biennale, e scarsa
produzione di biomassa, con conseguente ridotta asportazione dei metalli
assorbiti.
Lemna minor, monocotiledone, è una
macrofita acquatica galleggiante, ampiamente studiata per la sua
capacità di rimuovere i metalli dalle acque di superficie; può essere
considerata una pianta
iperaccumulatrice di cadmio. Assorbe Cd,
direttamente, attraverso la superficie inferiore della lamina fogliare.
Questa pianta raramente fiorisce in natura e il più delle volte si
riproduce per gemmazione, raddoppiando ogni 2 o 3 giorni in condizioni
ottimali la sua massa vegetativa. È diffusa ovunque. In Italia cresce
spontaneamente, ricoprendo vaste superfici di acque stagnanti (laghi,
risaie, canali).
Il pioppo non è classificabile tra le iperaccumulatrici, ma per la
sua natura di pianta freatofita a rapido accrescimento, alto potere
evapotraspirativo ed elevata formazione di biomassa, è capace di
assorbire ed accumulare nei vari tessuti notevoli quantità di metalli
durante il suo ciclo biologico poliennale. La sperimentazione condotta
su questa specie ha permesso di individuare la capacità di assorbire e
traslocare i metalli in eccesso, accumulandoli, ad esempio, nei tessuti
più vecchi o metabolicamente meno attivi. La senescenza e caduta precoce
delle foglie durante la stagione autunnale ne è una diretta
conseguenza. Nei tessuti del fusto e della radice il maggiore sviluppo
dell’endoderma fa da barriera e filtro all’eccesso dei metalli
assorbiti, riducendone il trasferimento nei vasi.
L’attività sperimentale svolta ha permesso di caratterizzare dal
punto di vista biochimico e molecolare la risposta della diverse specie
vegetali alla presenza di inquinanti, oltre che fisiologico e
morfologico-strutturale. A livello biochimico i meccanismi di
detossificazione dei metalli messi in atto dalla cellula vegetale sono
diversi e coinvolgono principalmente il metabolismo secondario. Le
ricerche condotte sulle specie indagate ha consentito di caratterizzarne
alcuni, quali il sequestro (“chelazione”) e la compartimentazione dei
metalli negli organuli cellulari (soprattutto vacuolo), la sintesi di
molecole a basso (es. glutatione o GSH) ed alto (es. fitochelatine,
acidi organici, poliammine) peso molecolare capaci di legare i metalli
pesanti, la riduzione chimica dello stato di ossidazione dello ione
metallico mediante l’attivazione di sistemi antiossidativi (es. ciclo
ascorbato-glutatione), la maggiore sintesi di composti polifenolici ad
azione antiossidante e di precursori dei componenti della parete
cellulare. Di conseguenza, un elevato contenuto di GSH ed un incremento
dell’attività della glutatione reduttasi sono associati ad una maggiore
tolleranza nell’accumulo di metalli pesanti necessaria a piante che si
comportano da iperaccumulatrici come
Lemna minor.
A livello molecolare nella risposta del pioppo all’eccesso di metalli
pesanti sono stati individuati geni candidati per la tolleranza e/o
resistenza codificanti per funzioni di trasporto e di sintesi e
controllo dello stato redox del glutatione.
Inutile dire che il coinvolgimento diretto di funzioni legate al
metabolismo secondario della pianta interessa, in funzione
dell’intensità e della durata dell’esposizione all’eccesso di metalli,
vie metaboliche primarie, quali l’attività fotosintetica e il
metabolismo dell’azoto. La ricerca finora condotta sulla fitodepurazione
ci ha permesso di verificare che la capacità di detossificazione delle
piante non è solo specie-specifica, ma anche organo- e
tessuto-specifica. Dopo decenni di studi prevalentemente concentrati
sulla porzione aerea della pianta, l’evoluzione e l’innovazione dei
mezzi strumentali ed analitici sta sempre più favorendo anche l’indagine
del comportamento della radice (“the hidden half”) in risposta agli
inquinanti, soprattutto quelli diffusi nel sistema suolo
(substrato)-acqua. A questo proposito i nostri gruppi di ricerca hanno
intrapreso e stanno sviluppando interessanti attività, utilizzando anche
Arabidopsis thaliana come pianta modello, oltre alle
specie vegetali già citate. Queste conoscenze sono indispensabili per
migliorare la capacità di tolleranza e/o resistenza a metalli pesanti ed
altri contaminanti da parte delle piante e costituiscono la base per
l’individuazione di piante selezionate o geneticamente modificate in
grado di accumulare e/o degradare inquinanti da usare in programmi di
bonifica di aree contaminate
(Fig. 3).
Iannelli Adelaide CNR-IBBA -
iannelli@ibba.cnr.itDi Baccio Daniela CNR-IBAF -
daniela.dibaccio@ibaf.cnr.it